Il più recente scritto della, giornalista e drammaturga svedese è un prezioso taccuino d’indagine emotiva e storica: il romanzo ha una partitura che alterna la “voce sola” dell’alter ego creato da Elisabeth Åsbrink, ai brani corali del racconto familiare ed epocale che si snoda attraverso il Novecento Europeo, già acutamente indagato e rappresentato in altri suoi scritti da rileggere quali “1947” e “Made in Sweden”.
L’abbandono evocato nel titolo è un sentimento intimo e generazionale, una condizione anagrafica e analitica che spinge a rintracciare le radici della propria origine e leggere la mappa della circolazione dei popoli, per sanare ferite antiche e profonde colla speranza che la linfa scorra a colmare le lacune e generare nuova vita.
Iperborea ne pubblica la traduzione accogliendola nel grembo del proprio catalogo assieme ad altre prove di figli e figlie di mille diaspore, antiche e recenti e, pare, indicarci quanto la Scandinavia e il Nord Europa lavorino faticosamente, ma strenuamente all’ integrazione e che tale naturale metabolismo accada necessariamente e coinvolgentemente.
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